Terra o dissidenza.
Le aree longitudinali, autonome e ufologiche del pensiero antagonista
di Ivano Mertz
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Fin quando l’espressioni radicali hanno potuto celarsi all’interno dei limiti
territoriali del pianeta, il pensiero poteva ancora sottrarsi dal confronto con i limiti
planetari entro i quali era autisticamente sorto. Così è stato; la ridondanza con se
stessi, la dialettica infinita dell’altro e del sé, l’incapacità di deterrestrizzare il proprio
punto d’attacco, hanno inaugurato gli ammortizzatori inerziali del pensiero radicale; e
ciò ben prima che si generalizzassero derisione e scherno nei confronti di tutti quegli
esoterismi contemporanei, troppo naïf per meritare il plauso delle pratiche
antagoniste. E che essi non meritassero altro è stato da subito evidente; la storia ne
ha disvelato l’incapacità di catalizzare la sfida contro il riduzionismo di una scienza
egemone e ideologicamente simulatoria. Ma con l’esoterismo ingenuo è stata gettata
anche la sua attitudine radicale; ciò ha costituito il grande limite dello stesso pensiero
negativo incapace di concatenarsi strategicamente. Troppe volte, infatti, il necessario
sospetto, si è trasformato in stolta concretezza e degrado. Qui, la ratio del necessario
si è scambiata col demone che voleva esorcizzare, e l’occuparsi del rilevante è
divenuto pura astrattezza. Ma chi era disposto a barattare certezze con baratri, ha
oggi il merito di averci consegnato un pensiero non sospetto; in queste interzone di
confine, gli spazi dell’antagonismo planetario hanno dismesso il camice delle
certezze per riappropriarsi dell’instabilità degli eventi.
Prima che l’attitudine rivoluzionaria di tali pratiche divenisse evidente l’infame
convergenza tra pianificazione del capitale e ingenuo antagonismo, ne aveva
concertato l’espulsione dalla crosta terrestre alla velocità impulso della propaganda
fascista: segno, questo, di una lobotomizzazione capitalista penetrata così a fondo da
sopraffare i suoi stessi nemici. Oggi essa ricade su terra con l’impeto suprematista
di chi ha deciso di incendiare ogni convenzione e gettare all’aria qualunque tregua
nella testa di coloro che, troppe volte, hanno sopravvalutato la dimensione di questo
insignificante pianeta.
In questo luogo di confine ci siamo riappropriati del nostro Esoterismo Radicale.
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Abbiamo perduto il ricordo di quando la dialettica innescata nei termini di una
claustrofobica antroposfera ed una opprimente esosfera generarono per sintesi
superiore, l’iperrealtà seriale di un ecofascismo di proporzioni interplanetarie. A
questo stato d’auto-assedio fu dato il nome di semiosfera terrestre, un’identità
scomoda di segni e referenti, attraverso cui ci parve ragionevole concepire il nostro
cielo come un coperchio a tenuta stagna: regno burocratizzato e blindato del senso.
Ma la linearità boost-phase di questa logica può non avere mai fine; fu così che
cominciammo a scavare il sottosuolo, soggiogati dal meschino alibi di una fin troppo
complice gravità terrestre. Ma a la Ragion Gravitazionale è stato concesso di
governare ogni principio di realtà escludendo a-priori la possibilità di un dominio su
cui fondare il Giudizio estetico dissidente; da subito fu chiaro che al di fuori dei
principi normativi dello schematismo terrestre, l’autonomia emergente avrebbe
costituito un’architettura in parallelo con le terminazioni nervose dilaganti in tutto il
pluriverso: se ciò fosse stato, lo stesso circuito di contenimento circostanziato dal
sostantivo - terra - avrebbe smesso di funzionare.
Ma la consuetudine a guardare il cielo vedendo un tetto, sancita attraverso
l’illuminismo figurativo del clero, degrada a fantasticheria l’attitudine
all’autodeterminazione evolutiva. Dismessi templi e cupole, i nuovi preti di
quest’ordine da serra, si mimitizzano tra coloro che, pur oltrepassando se stessi, non
scorgono che iterate alterità terrestri.
E per chi decise di trovarsi a proprio agio con la bocca sporca di terra, fu subito
impossibilità di concepire livelli di autodeterminazione pluriversa, esclusione dalle
suggestioni destabilizzanti e sovversive di un pensarsi, qui ed ora, extra-specifico.
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Se l’attrazione terrestre, da una parte, e l’illusione ottica di un’atmosfera serra,
dall’altra, hanno potuto domesticarci al mito della madre-terra, in tempi più sospetti,
quanto più recenti, la forma di riproduzione dominante ha sfruttato tale illusione come
mezzo privilegiato per la propria evoluzione, transitando da una fase inerziale
geostazionaria ad una propriamente autoriproduttiva e compiutamente orbital-
pancapitalista.
La dove il capitale viene ancora illusoriamente combattuto nei suoi termini ultimi di
gestori autorizzati alle transizione economiche, l’antagonismo rivoluzionario manca il
proprio obbiettivo. Quando esso, al contrario, decentra lo sguardo nella direzione di
un capitale antropomorfizzato, riesce a scorgere la strategia dominante di
un’ideologia che blinda il pensiero entro le pareti sempre mobili della biosfera
capitalista. Come al tempo della Critica alla Conquista dello Spazio i suoi agenti
furono intercettati nella forma pura degli impresari dello spettacolo terrestre, così oggi
è l’astronautica, in tutte le sue forme, a finire sul banco degli imputati, inquanto
complice della pianificata estensione del territorio di terra entro i limiti razionalizzabili
e controllabili del capitale orbitante.
Qui, in questo luogo di plusvalore terrestre, in questo campo di contenimento
planetario, si pianifica l’estensione linguistica di ciò che, anche rivoluzionariamente, è
ragionevole affermare.
Questo luogo è il limite paradigmatico in cui il capitale può riconoscere se stesso. Ma
in questo stesso luogo, esso e il suo più acerrimo nemico, il pensiero e la prassi
radicale, sovente brindano all’implicita menzogna riduzionista di un modo di
produzione che, per propria insensata sopravvivenza, promuove l’ordine biologico
terrestre come unicità accidentale nell’universo, appellando con l’infamante etichetta
di metafisici, coloro i quali si affacciano sul baratro della speculazione non-
convenzionale.
Ma chi non ha paura di tale appellativo più di quanta ne ha per quello gemello di
scienziato, ricorda a costoro che: nei termini normatizzati della dialettica tra biosfera
ed esosfera si preferì incapsulare il terzo pianeta del sedicente sistema solare
sottoponendolo a vari prototipi politeistici fino all’aberrazione ultima del monoteismo
delirante. E a costoro che dai gabinetti scientifici tentano di territorializzare
l’espressioni di fenomeni delocalizzati tramite le categorie disforiche delle religioni e
di una natura immanente ai soli cicli di madre-terra diciamo: sappiate che siete tanto
meno originali quanto più banale fu il vostro creatore taylorista a replicare tutto a sua
immagine e somiglianza.
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Rinchiusi nei nostri paradigmi gravitazionali abbiamo continuato a destreggiarci
nella semplicistica opzione di decidere quale spettacolo terrestre facesse al caso
nostro invece di depistare lo sguardo razionalizzante delle geografie terrestri. Nel
teatrino delle scelte rivoluzionarie abbiamo sbancato il botteghino con coloro che
amano le repliche come estensione di un lavoro dilagato nell’intero ciclo del tempo
della vita. Osare il pensiero è divenuto un vezzo soppresso come sopravvivenza
nobile di una società blindata entro il proprio dualismo di classe. Ma la fine del
pensiero non è l’estinzione di una classe, ma la sua estensione simulatoria all’intero
campo della critica. La prassi iperripristinata al monotono tempo dei 4/4 dei motti
rivoluzionari intraspecifici, non è più l’antidoto contro la speculazione soddisfatta di se
stessa, ma il pretesto con cui gli esecutivi vigliaccamente strozzano il pensiero critico
delocalizzato e pronto a sbarazzarsi dei nemici; ma ancor prima, dei pericolosi amici.
Quando l’universalismo illuminista, il dominio organico, dimostrò di essere stato solo
un abbaglio della necessità del dominio regolativo, i terrestri ebbero l’ occasione di
impugnare il proprio destino e proiettarlo al di fuori di una semiosfera che già
puzzava di cadavere. Così non fu e gli umani rimasero troppo umani sperando di
riconciliarsi al loro creatore attraverso insani socialismi linguistici che già prima di
vedere la luce ricevettero l’estrema unzione.
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Non bastò aver dimostrato come la forma del dominio avesse la sua matrice nel
contestualizzarsi come parte integrante di un ambiente già modellizzato ad immagine
e somiglianza di una soggettività costituente. "Pensare significa identificare". I
terrestri fecero di questa soggettività il loro comburente più manifesto, tana nella
quale seppellirsi per fuggire dal confronto aperto con un’alterità che non fosse diretta
emanazione di un dispositivo di rispecchiamento ecosistema-centrico. Lo stesso
assordante ritornello si ripete in tutte le teorie sistemiche che prevedono un livello
avionico oltre il quale non poter, ma soprattutto non dover, tentare d’affacciarsi; pena
l’inferno metodologico qui su terra.
Si fottessero loro e i loro limiti paradigmatici venerati come le colonne d’Ercole di un
progresso che da tempo ha mostrato la profonda matrice ideologica che lo anima;
noi abbiamo scelto l’inferno dell’aconcettuale e la fine di tutti i legami con gli angeli
del sapere burocratizzato e annihilito dietro la paura superstiziosa per il non-identico:
massimo rispetto per il Gorgo ispiratore!
Ma attenzione! Li dove le certezze sono state catalogate e allontanate da un pensiero
sedicente radicale, esso nouvamente si è sorpreso estasiato e rapito dalle poco
originali alterità terrestri, micro-replicazioni assortite di un capitale pronto a
sbarazzarsi di scomodi rigidismi, riconfigurandosi più scaltramente dei suoi stessi
monolitici e ciechi oppositori.
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Contro chi oggi si adagia alla venerazione della satellizzazione del capitale, alla
messa in orbita dei variegati immaginari della circolazione e del benessere, il
pensiero radicale ricorda come tutto si disgreghi alla luce accecante del puro
dominio, forma totale e definitiva del capitale interplanetario giunto al suo stadio più
efficacemente spettacolare. E’ qui, nella fase due dell’implementazione di una
fantasmatica legge del valore, che si gioca la battaglia per il ripristino dei
meccanismi di dominio e di controllo, prototipi sperimentali d’esportazione spaziale,
di un già collaudato imperialismo schiavista impegnato sulle incerte rotte di una
traiettoria balistica ibrida che si è spinta, ormai, fino all’eliopausa.
Ridere delle fiction spaziali o sottovalutarne il valore di significati iperreali, significa
glorificare, qui su terra, i domini immateriali di una pianificazione totale, simulazione
di quotidianità ottenuta al prezzo del sacrificio rituale dell’autodeterminazione
interspecifica; ogni corpo è gettato su uno scoglio che confina solo con un immenso
oceano: in questa denuncia, il vecchio adagio heideggeriano era stato più
lungimirante di qualsiasi critica negativa. Il pensiero radicale e deterrestrizzato
denuncia questo isolamento ideologico ai danni della specie; "per tacere degli
animali".
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Ora che la filosofia, l’arte, la rivoluzione hanno mancato il compito di riconciliare
terra con il resto dello spazio, la critica radicale è costretta a criticarsi spietatamente
rivolgendosi a quelle riflessioni che una volta derideva per la loro apparente
mancanza d’integralismo. Esse ancor meno paranoicamente interessate al proprio
dialettico divenire, si sono, in buona parte, sottratte all’orbitazione geosincronica
intorno al capitale-terra di cui rimasero vittime i movimenti rivoluzionari e il loro
essere mero specchio della produzione. Oggi che quegli integralismi si disvelano per
la loro natura dialettica ed egemonica, il pensiero critico deve umilmente muoversi
verso quelle stesse riflessioni che denigrava combattendo in esse le stesse tendenze
scettiche e integraliste che a suo tempo lo depotenziarono.
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Ma riappropriarsi criticamente dei territori orbitanti non è abbastanza; ed è tanto
meno utile quanto più ripristina la dialettica binaria del lavoro e della produzione.
Anche se un’astronautica autonoma dovesse riuscire nell’impresa di distaccarsi
significativamente dalla crosta terrestre, essa riprodurrebbe le meccaniche della
velocità di fuga del capitale. A che prezzo politico, infatti, impegnarsi nella
costruzione di vettori spaziali? A deperimento di quanto tempo della vita? Di nuovo il
pensiero radicale si ribalta su se stesso per farsi contro-spettacolo, dialettico e
reversibile, di una produzione soffocante di cui si lagna. Ma ancor più
scelleratamente: che attitudine biopolitica teletrasporteremmo dopo aver terminato lo
sfiancante turno nell’officine dell’imprenditoria autonoma? Dopo aver risolto l’enigma
scientifico di una propulsione balistica o di una traiettoria bachistocrone? Dove il
pensiero radicale smette di autoaccertarsi sottraendosi all’eredità metacritica che gli
assicurò una continua verifica su se stesso, li si annidano le tane del microfascismo,
prodotto più genuino ed esportabile della nostra madre-terra. Li il pensiero si
annichila lasciandosi assicurare ad una torre di lancio per essere spedito il più
lontano possibile senza prima aver risolto la propria preistoria predatoria.
Se davvero è giunto il tempo di muoversi fin dove nessun umano era giunto prima
incendiando il modo dialettico di concepire le lotte, il nostro mezzo, la critica
delocalizzante e radicale, deve abbandonare il pianeta prioritariamente nei termini
delle proprie attitudini disvelando il referente, quand’esso rimane che un mero
rispecchiamento delle meccaniche celesti.
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E’ qui, che il nostro pensiero si è riappropriato dell’esoterismo radicale che aveva
propulso in nome di una dialettica mai troppo innocua. E’ nella contaminazione con
l’interspazio che il dominio si fa più labile e, per il capitale la riterritorializzazione più
urgente, che la certezza dell’universale diviene incerta, meno rigorosa ed ancora
disposta a confrontarsi sul terreno della lotta antagonista. Su questo terreno
delocalizzato ha ancora senso inasprire il sospetto chiamandosi fuori dall’umano
immobilismo di un avvento genuinamente rivoluzionario. Qui il materialismo si apre
ad un nuovo e più sperimentale senso investendo politicamente su territori lagunosi; è
ciò perché il puro dominio non illumina omogeneamente e sincronicamente tutto a
giorno.
Anche se questa contaminazione servisse esclusivamente a portare il confronto sui
territori decongestionati dell’extra-territorialità, il pensiero radicale avrebbe centrato il
proprio obbiettivo mutando d’ottica, sovvertendo l’attitudine, delocalizzando terra.
Prima l’attitudine extra-territoriale avrà compimento, prima il pensiero potrà avere una
chance delocalizzante, precondizione minima per un contatto politico con forme
etero-territoriali.
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Contro chi obbietta che delle presenze etero-territoriali potrebbero essere così diverse da
risultare indistiguibili dall’escursione ambientale, replichiamo: sappiate che le vostre
affermazioni non sono affatto originali; esse ricalcano la vetusta dialettica dell’irreversibilità del
sé e dell’altro nei termini degradati di una riconciliazione superiore. Ciò che affermate è solo una
mezza verità che nasconde il processo simulatorio del capitale, la cui immanenza vi sfugge nei
modi della sua incessante riconfigurazione. Ciò che i vostri sensi omettono di captare non sono
forme extra-territoriali, ma la conformazione antropomorfica stessa del capitale stadio ultimo
della sussunzione reale.